Al cinema l’universo dell’arte contemporanea
Chi lavora sulle icone riconoscibili del paesaggio urbano (il Reichstag di Berlino, il Pont Neuf di Parigi), e chi quel paesaggio – spesso anonimo – lo (di)segna con il proprio tratto, nelle stazioni della metropolitana come sui muri delle periferie. Con Christo (e Jeanne-Claude) e Keith Haring, l’arte contemporanea s’affaccia alla Festa di Roma in due documentari (entrambi in Extra) che raccontano la creatività di tre protagonisti del nostro tempo: con la loro approvazione (o dei congiunti, nel caso del prematuramente scomparso Haring), e quindi con testimonianze e documenti di prima scelta – e talvolta inediti – ma quasi sempre a senso unico.
Il rischio dell’agiografia si fa sentire soprattutto in The Universe of Keith Haring, il film che Christina Clausen (danese di nascita e italiana d’adozione) ha dedicato al celebre pop-artist delle sagome stilizzate. Alfiere di un’arte democratica che parlasse a tutti, questo pupillo di Andy Warhol non fu soltanto un creatore di forme, ma anche uno straordinario fenomeno sociale: conteso dal jet-set, Haring continuò per tutta la vita – stroncata dall’AIDS nel 1990 – a esercitare la propria bulimia creativa (incurante della prima regola del mercato, anche dell’arte: limitare l’offerta per far crescere la domanda), griffando vagoni e bagni pubblici, corpi e vestiti (anche quelli di Grace Jones e di Madonna). Tutto questo nel documentario – coproduzione italo-francese tra Yade French Connection, Absolute, Overcom – c’è. E ci sono gli amici, le opere (d’arte e di beneficenza), e gli amori (omosessuali): le luci. Mancano le ombre.
Più complesso The Gates, diretto dall’italo-americano Antonio Ferrera e da Albert Maysles (che negli anni ’50 fu un pioniere del Direct Cinema), che non è un documentario sulla coppia Christo/Jeanne-Claude, ma sulla genesi di un’installazione realizzata a New York nel 2005. Non in un posto qualsiasi, ma in un luogo-simbolo: Central Park.
Inseguito per oltre vent’anni, questo “fiume d’oro” che scorre nel verde (composto da 7500 archi di metallo che sostengono pannelli di stoffa arancione) è stato aspramente criticato: accoglienza non nuova per i due artisti, accusati di violentare la natura (loro che impacchettarono persino un atollo del Pacifico). Si difendono con un paradosso: cosa c’è di naturale in quell’angolo di verde ritagliato tra i grattacieli di Manhattan, e dove tutto – compresi i laghetti – è stato progettato dall’uomo? In questa riflessione sull’artificiosità della natura, sta il cuore di un film dialettico (prodotto da Maysles FIlms con capitali finlandesi, francesi, tedeschi e olandesi) che offre allo spettatore gli strumenti per giudicare un’opera controversa.
Ti è piaciuto questo articolo? Iscriviti alla nostra newsletter per ricevere altri articoli direttamente nella tua casella di posta.