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CANNES 2021 ACID

Recensione: Aya

di 

- CANNES 2021: Simon Coulibaly Gillard propone un racconto di formazione al tempo stesso classico e atipico, che prende in prestito dal documentario il suo metodo e dalla finzione la sua forza

Recensione: Aya
Marie-Josée Kokora in Aya

Aya (Marie-Josée Kokora) è nata e cresciuta sull'isola di Lahou, a una cinquantina di chilometri da Abidjan. Vive lì con sua madre e il suo fratellino, al ritmo del mare, quello delle onde, che cullano e cancellano. Perché il mare a poco a poco erode la terra. La sua spiaggia scompare. Della città che conoscono i suoi anziani rimangono solo le briciole, solo un villaggio, qualche peschereccio e un cimitero, le cui tombe vengono svuotate giorno dopo giorno.

Aya vorrebbe resistere a questa lenta erosione. Così dimentica se stessa nella sua quotidianità, fatta di piccoli lavori e giochi. Aiuta sua madre, si prende cura di suo fratello, si arrampica sulla palma da cocco e sogna sulla sabbia. Non sogna tanto un altrove, quanto un altro tempo, un prima gioioso e pacifico, dove il mare era un alleato. Rifugiata nell'infanzia ridente dei suoi giorni a Lahou, Aya dovrà comunque crescere e lasciare il mondo dell'infanzia, sia letteralmente che metaforicamente.

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Aya [+leggi anche:
trailer
intervista: Simon Coulibaly Gillard
scheda film
]
, che ha chiuso la selezione de l’ACID al 74° Festival di Cannes, è la storia di un passaggio all’età adulta unita a una storia di esilio. Un doppio movimento di partenza forzata più che di fuga, di strappo più che di abbandono, che induce una perdita di punti di riferimento e di identità tanto più dolorosa.

Il primo lungometraggio di Simon Coulibaly Gillard convince tanto per la vitalità contagiosa di Aya, quanto per la bellezza dell'immagine, il respiro dell'oceano, un oceano tanto versatile quanto loquace, che sembra sussurrare alle orecchie degli abitanti. Un oceano demiurgo, che ha il compito di riscrivere il loro destino.

Una bellezza formale mentre invece il film è stato girato con una micro troupe, cosa che sullo schermo non sembrerebbe mai. Il regista assicura l'immagine, il suono, la continuità e la direzione artistica, mentre due assistenti alla regia assicurano le traduzioni e i contatti con gli abitanti dell'isola, attori dilettanti che riproducono il loro presente. Proprio come il mare, principale antagonista della storia, i paesaggi fanno parte della storia, raccontando le loro storie grandi e piccole.

Le scene notturne in cui vediamo uomini aprire silenziosamente le tombe per trasferire i resti degli antenati morti sull'isola in scatole di plastica sono come tanti impotenti guardiani della storia, che cercano in qualche modo di trattenere il ricordo che vola come sabbia tra le loro dita.

Le qualità immersive della messa in scena ci trasportano in una realtà lontana che suscita temi universali e suggella il destino di un'Africa occidentale afflitta dall'esodo rurale. Aya alla fine dovrà andarsene, come tanti altri prima di lei. Lei andrà, ma non dimenticherà mai. Sballottata dalla vita notturna di una giungla cittadina che affronta con coraggio, sete di vita e determinazione, Aya imprime una svolta come meglio può. Aya figlia di Abidjan, per sempre di Lahou.

Il film è stato prodotto con il sostegno del fondo di assistenza alle produzioni leggere lanciato alcuni anni fa dalla Fédération Wallonie Bruxelles. Alla produzione, troviamo Michigan Films (Belgio) e Kidam (Francia). Il film è venduto nel mondo da Tavskoski Films.

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(Tradotto dal francese)

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