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VISIONS DU RÉEL 2019

Recensione: A Donkey Called Geronimo

di 

- Il sorprendente documentario di Arjun Talwar e Bigna Tomschin è impregnato d’una seducente malinconia

Recensione: A Donkey Called Geronimo

Per il loro primo lungometraggio A Donkey Called Geronimo [+leggi anche:
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il regista indiano e americano (che ha effettuato i suoi studi alla Polish Film School di Lodz) Arjun Talwar e la regista svizzera e tedesca Bigna Tomschin (Bachelor in regia ottenuto alla Zürcher Hochschule der Künste) hanno deciso di lavorare in binomio. Dopo aver presentato il loro documentario a DOK Leipzig eccoli di ritorno a Visions du réel dove il film è stato selezionato per la Competizione nazionale.

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A Donkey Called Geronimo gioca abilmente con la nozione di realtà percepita come unica e immutabile. Nell’universo misterioso creato da Talwar e Tomschin la realtà è multipla e sfaccettata, un condensato di miti, leggende e nostalgica quotidianità.

Un gruppo di marinai decide di stabilirsi su un’isola deserta persa nel Mar Baltico, alla ricerca di una libertà senza confini se non quelli imposti dalla natura. Inebriati dalla bellezza di una terra che ai loro occhi ricorda il paradiso perduto, non si accorgono che il sogno si trasforma poco a poco in incubo. La presa di coscienza di un fallimento ormai alle porte li spinge a ritornare sulla terra ferma, verso un quotidiano che non ha più nulla da offrirgli. 

Difficile per non dire impossibile dare un senso ad una vita diventata ormai prigione, soffocante riflesso di un sogno svanito nel nulla. La nuova dimora di questi lupi di mare è una vecchia barca armeggiata nel porto di un villaggio che sembra aver perso la sua anima. La notte si ritrovano sul pontile per bere qualche birra e parlare di un’isola che non esiste più, di un universo lontano dove bellezza rima con libertà. 

L’isola di cui parlano non è mai mostrata direttamente allo schermo se non brevemente alla fine del film. Il pubblico non può che immaginarla attraverso il prisma dei ricordi di questo gruppo di marinai idealisti. Il passato, la “verità” di un’avventura che sembrava poter durare per sempre, si tesse attraverso le voci, i racconti e la malinconia di uomini (e una misteriosa donna su di un veliero) che sembrano aver vissuto mille vite.

Le facce divinamente rugose e affaticate dei protagonisti di A Donkey Called Geronimo, filmate spesso in piani ravvicinati, alimentano il mistero di un racconto che non smette di inspessirsi. Poco a poco, un elemento dopo l’altro, la realtà di un passato a noi inaccessibile sembra prendere forma attraverso il mezzo filmico, come a volerci ricordare che la realtà non è che la somma di innumerevoli soggettività. 

I protagonisti di A Donkey Called Geronimo sono stregati dalle promesse fatte dall’isola. Incapaci di dimenticarne l’inebriane profumo che emana, sembrano vagare in un quotidiano che non ha ai loro occhi più senso. Riusciranno a disintossicarsi da un passato fatto di ricordi? 

Il documentario di Arjun Talwar e Bigna Tomschin si avvicina in questo senso ad un thriller dove aleggia costantemente un’aura di pericolo. Le persone diventano personaggi e la realtà finzione, in un susseguirsi di scene che da banali diventano cinematograficamente stupende. A Donkey Called Geronimo è un documentario che trasforma l’imperfezione e la diversità in maestosa bellezza. 

A Donkey Called Geronimo è prodotto da Lo-Fi Films (Arjun Talwar e Bigna Tomschin) che ne possiede anche i diritti mondiali.

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