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VISIONS DU RÉEL 2019

Recensione: Golden Age

di 

- Il documentario dei giovani registi Beat Oswald e Samuel Weniger è un primo film allo stesso tempo ironico e profondo che si gusta come un delizioso cocktail

Recensione: Golden Age

Accattivante ed estremamente ben costruito sia a livello estetico che contenutistico, Golden Age [+leggi anche:
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di Beat Oswald e Samuel Weniger (proiettato in prima mondiale a Visions du réel, nella Competizione nazionale) fa parte di quei film che non hanno paura di giocare con i limiti fra realtà e finzione. Un’audacia che sembra essere il leitmotiv della programmazione del festival nyonnais.

Custodi di una chiave dorata che ci da accesso al fantastico mondo del Palace, famosa e decisamente atipica “casa per anziani” di Miami, Beat Oswald e Samuel Weniger ci permettono di spiare un quotidiano che non assomiglia a niente di ciò che conosciamo.

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Di un’opulenza decisamente decadente il Palace attorno al quale si sviluppa Golden Age si trasforma in scrigno di una vecchiaia atipica, scoppiettante e luccicante, abitato da personaggi che intendono approfittare della vita fino all’ultimo respiro (e fino all’ultimo soldo).

La ricchezza che traspare da ogni piano: pavimenti in marmo nei quali ci si potrebbe specchiare, lustri luccicanti e saloni immensi che custodiscono i piccoli e grandi segreti degli anziani residenti, così come l’incessante susseguirsi di attività le une più stravaganti delle altre, regalano al luogo un’aurea surreale.

Coccolati fino all’estremo, gli ospiti sembrano fluttuare in un decoro che traspira la decadenza e l’opulenza ma che non riesce però a scacciare il profumo di formaldeide che impregna l’aria. Ossessionati dal bisogno di cancellare le tracce di un deperimento inevitabile, gli addetti ai lavori (dai camerieri fino ai direttori generali che non nascondono di certo le loro ambizioni finanziarie) che pullulano nelle numerose stanze del Palace (incessantemente lustrato, ridipinto, rinnovato) non riescono comunque ad eliminare le piccole crepe: una mano che trema aggrappata ad un cocktail (sì perché al Palace lo champagne scorre a fiumi) o una testa che cade in balia del sonno, che invadono incessantemente il luogo.

Ritrascritto secondo differenti punti di vista: quello degli ospiti interrogati dai registi mentre posano nelle loro incredibili mini-suite come in un tableau vivant, quello degli impiegati e quello dei direttori ed ideatori di un’utopia da milionari, Golden Age è un film esteticamente potente che si attarda su dettagli impregnati di significato (le scarpe ortopediche portate con le unghie fresche di smalto, un brushing iper cotonato che nasconde una calvizie o ancora la serie impressionante di cocktails serviti durante gli “Happy hours extravaganza”) inserendoli in un continuum di divertimento che inebria non solo gli ospiti del Palace ma anche gli spettatori che vogliono credere in un’altra vecchiaia: personalizzata e inebriante.

Come in un sogno Golden Age, costellato da tableaux vivants sui quali vorremmo attardarci a lungo, si conclude su una serie di nature morte (gli stessi interni svuotati dei loro appariscenti occupanti) che ci spingono ad interrogarci sul nostro proprio rapporto alla morte, sussurrandoci allo stesso tempo ironicamente: “the show must go on”.

Apparentemente succube dell’opulenza degli spazi Golden Age porta in realtà uno sguardo allo stesso tempo critico ed intrigato su una “ricetta della felicità” che sebbene incontestabilmente basata sui soldi, rimane comunque vergognosamente attraente.

Un primo film allo stesso tempo ironico e profondo che si gusta come un delizioso cocktail senza pensare agli immancabili postumi della sbornia.

Golden Age è prodotto da Conobs, SRF Schweizer Radio und Fernsehen, SRG SSR e Weniger Video. First Hand Films si occupa delle vendite all’internazionale.

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