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Cédric Klapisch • Regista

La poesia del quotidiano

di 

Figura di spicco del cinema francese che inanella un successo dopo l'altro, ma è spesso oggetto di critiche, Cédric Klapisch firma con il suo nono lungometraggio, Paris [+leggi anche:
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, un film più cupo dei precedenti, ma allo stesso tempo più limpido. Pierre, interpretato da Romain Duris, giovane ballerino affetto improvvisamente da una grave malattia al cuore, osserva dalla finestra la vita della gente. Intorno al suo sguardo si costruisce poco a poco il ritratto di una città, dei suoi abitanti, dei loro dolori e delle loro speranze.

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Cineuropa: Paris è un film corale dalla struttura complessa e, allo stesso tempo, è forse il suo film più limpido, più semplice.
Cédric Klapisch: Sono d'accordo. Cercavo la semplicità, ma il principio che sta alla base della narrazione è piuttosto complesso. Ed era difficile riuscire a raccontare una sola storia a partire da tutte le altre. Il montaggio è stato la tappa più difficile. Stranamente, il film è abbastanza lineare quando invece poteva diventare un patchwork. Ho l'impressione di aver cercato un film fluido e puro benché fosse barocco già a priori. Sì, è uno strano miscuglio delle due cose.

Ha tagliato molto della sceneggiatura?
Circa la metà di quello che avevo girato… In verità, nessuna storia è sparita ma è stato tutto accorciato, e alcune cose più di altre. La storia dell'africano, ad esempio, era molto più sviluppata. La mia sceneggiatura era in origine più democratica (ride), tutti avevano spazio! Mi sono reso conto che certe cose avevano bisogno di più tempo e che prendevano naturalmente il sopravvento, come le storie di Romain Duris e Juliette Binoche, centrale, quella di Fabrice Luchini con François Cluzet e Mélanie Laurent…

Cosa l'ha guidata nella scelta delle storie?
Ciò che Parigi rappresenta per me. Ho voluto, ad esempio, che il film fosse girato in autunno. Non solo la storia di Pierre è autunnale, ma con questa stagione le evocazioni nascono spontanee, Baudelaire, Apollinaire... L'autunno è triste ma anche ricco di colori, scintillante, come il canto del cigno. Volevo anche filmare questa città moderna e al tempo stesso antica, così come i due fratelli: uno costruisce la nuova Parigi, l'altro insegna ai suoi studenti la vecchia. Ho scelto le storie in base ai temi che desideravo sviluppare. Quando si pensa a questa città, moda e immigrazione sono le prime cose che vengono in mente. Poi, di fatto, è la musicalità del film a tenere insieme queste storie. Bisognava anche evitare l'elemento didattico, Paris non è una guida turistica (ride).

Nei suoi film precedenti, qualcosa di grave nasceva dalla leggerezza e dall'energia. In Paris, si ha la sensazione inversa, che la gioia nasca dalla gravità.
Sì, è vero, i personaggi ridono molto. Ed è esattamente il contrario di certi miei film, come Chacun cherche son chat, dove i personaggi si divertivano, certo, ma non ridevano così di gusto. E poi ho 46 anni, mi accorgo che invecchiare è perdere e al contempo guadagnare qualcosa. Ho voglia di parlare di questo.

Non trova che Romain Duris vada un po' controcorrente nei panni di questo ballerino costretto all'immobilità?
La tragedia della sua malattia è amplificata proprio dal fatto che è un ballerino. E poi amo utilizzare i cliché per smontarli. All'inizio mi son detto: non utilizzo il Moulin Rouge, questo emblema di Parigi, è davvero troppo (ride)! Ma poi è interessante proprio perché non descrivo la vita di un modaiolo che lavora al Moulin Rouge... Non mostro il cliché, ma il suo rovescio. Allo stesso modo, prendo un professore della Sorbona che ha una relazione con una studentessa: egli vive un cliché. Ma lui non è un cliché, non vuole esserlo e deve accettare la banalità della situazione. E' questo che mi piace quando racconto una storia. Nessuno è superficiale; indossiamo delle maschere, certo, ma ciascuno di noi ha una vita. Utilizzare i cliché per smontarli è, per un narratore, fonte d'ispirazione.

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