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Matthias Luthardt • Regista

"Evitare il sentimentalismo"

di 

- Incontro con un giovane cineasta radicato nella sobrietà e nell’osservazione meticolosa dei territori del non-detto

A 34 anni, il regista tedesco Matthias Luthardt è riuscito a debuttare con successo nel lungometraggio di fiction con Pingpong [+leggi anche:
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, pellicola di diploma selezionata a Cannes alla Semaine de la critique. Incontro a Parigi con un regista passato per il giornalismo ed il documentario, percorso che ha sicuramente influenzato il suo stile, che privilegia l’osservazione distaccata del quotidiano.


Cineuropa: Come nasce Pingpong ?
Matthias Luthardt: Volevo raccontare una storia che si svolgeva in un ambiente sociale vicino al mio, privilegiato e tradizionale, visto che la parola "borghese" semplifica troppo. Volevo concentrarmi su alcuni personaggi e ho trovato una co-sceneggiatrice che scrive piece teatrali, e quindi abituatata alle ‘porte chiuse’. Il nostro obiettivo era di mostrare cosa succedeva dietro le porte, senza dover costantemente drammatizzare, raccontando come comunica o non comunica la gente, e lavorando soprattutto sul non-detto. Successivamente, abbiamo sviluppato una vicenda sullo sfondo del conflitto sociale. Sebbene appartenga alla stessa famiglia, Paul viene da un altro ambiente sociale, con uno spirito di comunicazione molto diverso. Il micro-cosmo nel quale fa irruzione è un mondo un po’ isolato, incapace di cambiare, e suo cugino Robert non è certo l’adolescente normale che, ad esempio, esce con i suoi amici quando è tempo bello.

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La scelta dell’a porte chiuse era legata a vincoli produttivi?
Certamente i vincoli finanziari hanno avuto un ruolo, ma ero proprio attratto naturalmente da questo universo chiuso. Ho realizzato dei documentari, in passato, con piccole troupe, tenendo io stesso la macchina da presa, per poter essere il più vicino possibile ai personaggi. E per Pingpong, temevo che troppi ambienti e troppa ambizione potessero nuocere a questo tipo di film. Per il resto, mi sono preso molto tempo per trovare i miei attori. Ho avuto fortuna con Sebastian Urzendowky che mi ha convinto immediatamente in fase di casting. La cosa più difficile è stato il personaggi di Robert, perché volevo un vero pianista e l’ho cercato per tutta la Germania prima di trovare Clemens Berg.

Il cane Schumann è un personaggio a tutto tondo.
E infatti così è stato trattato : il modo in cui lo ama la madre di famiglia dice molto su di lei. Mi ha colpito il documentario austriaco Tierische Liebe (1995) di Ulrich Seidl, che parla della relazione forte, a limite della sessualità, che lega gli abitanti della periferia di Vienna ai loro cani. Volevo che ogni oggetto, ivi compreso il cane, avesse una funzione, come i leitmotif nella letteratura romantica. Il pericolo era quello di presentarli come simboli, perché non volevo essere troppo dimostrativo. Ho cercato quindi di trovare piani e inquadrature che mi permettessero di mostrare questo simbolismo in modo distaccato. Ho fatto scelte senza compromessi domandandomi continuamente quale fosse il personaggio in cui mi identificavo. In questo modo, il punto di vista è quello del personaggio in primo piano anche se a parlare è un altro personaggio sullo sfondo.

La stampa la avvicina alla "Scuola di Berlino" (Petzoldt, Schanelec, Griesebach...). Cosa ne pensa?
Questo movimento raccoglie film anti-drammatici e anti-psicologici, ma Pingpong non rientra in questo filone, Di sicuro ho qualche punto di contatto con la scuola, perché cerco di evitare il sentimentalismo, raccontare in modo sobrio storie brutali, semplici, certo non "più grandi della vita" come fanno gli americani, solo cose che ho osservato e che si esplorano col proprio linguaggio.

Quali sono le sue influenze cinematografiche?
Amo i primi film di Kieslowski, quelli di Haneke, Sotto la sabbia di François Ozon, qualche fim di Lars von Trier e soprattutto quelle dei fratelli Dardenne.

Qual è il suo punto di vista sull’attuale rinascita del cinema tedesco?
Sicuramente c’è un rinnovamento, e le cinque scuole di cinema esistenti ne sono il motore. Ma c’è anche una volontà da parte dei giovani cineasti di non imitare più altri registi. I responsabili delle pre-acquisizioni dei vari canali televisivi hanno ugualmente uno spirito aperto e sostengono questo movimento, cosa che dieci anni fa non accadeva. Alla fine, la Storia può giocare il suo ruolo: c’è voluto del tempo dopo la caduta del Muro perché i registi si avvicinassero a soggetti come quello di La vita degli altri [+leggi anche:
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di Florian Henckel von Donnersmarck (vedi Focus).

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