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BIF&ST 2022

Domenico Croce • Regista di Vetro

“Se c’è un lato oscuro da qualche parte dentro di noi, bisogna indagarlo”

di 

- Il regista ci parla del suo primo lungometraggio, in concorso al Bif&st di Bari. Un thriller psicologico che vede protagonista una giovane donna che non esce mai dalla propria stanza

Domenico Croce • Regista di Vetro
(© Bif&st)

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, l’esordio nel lungometraggio del regista 29enne Domenico Croce (David di Donatello 2021 per il miglior corto, Anne), si chiama “Lei” (Carolina Sala) e da un tempo indefinito non mette il naso fuori dalla sua stanza. Vive in casa con suo padre (Tommaso Ragno), che le passa amorevolmente il cibo attraverso uno sportellino ritagliato nella porta, e con il suo adorato cane Hiro, che da quello stesso sportellino entra ed esce; il suo unico contatto con l’esterno è un ragazzo (Marouane Zotti) con cui chatta online. Lei ha tutta l’aria di essere una hikikomori, ossia una di quegli adolescenti che decidono volontariamente di rinchiudersi nella propria stanza e di non vedere più nessuno. Ma indagando sui strani movimenti del suo dirimpettaio, verrà fuori una realtà diversa e sconvolgente. Ne abbiamo parlato con il regista in occasione della prima mondiale del film al Bif&st di Bari, cui seguirà l’uscita in sala il 7 aprile.

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Cineuropa: Cosa sapeva del fenomeno dell’hikikomori quando le è stato proposto di dirigere questo film?
Domenico Croce:
Conoscevo il termine e a grandi linee di cosa trattasse. Una volta letto il soggetto di Luca Mastrogiovanni e Ciro Zecca (autori anche della sceneggiatura), ho cominciato a cercare informazioni tramite articoli e interviste. Quello che mi ha attratto è che c’era una sorta di mistero insito nella protagonista, e mi sono subito chiesto come lo avrei potuto rendere filmicamente. Poi c’è questa sensazione inconscia di voler riscoprire se stessi, di cercare una forza interiore, che poi nella trama del film coincide con una sorta di verità investigativa.

Attraverso il vetro, la protagonista vede una realtà distorta?
Il vetro rappresenta la trasparenza ma può essere anche uno specchio, a seconda dell’angolazione da cui lo guardi, proprio come la nostra anima in relazione ad eventi e persone. Sono attratto dalle storie che raccontano una duplice realtà, Hitchcock è un mio grande riferimento. È un film basato molto sulle immagini e sui fuori campo, è naturale che generi confusione, l’obiettivo finale è l’emozione. Stiamo sempre con la protagonista, con il suo punto di vista e il suo stato emotivo, tutto ciò che accade è filtrato da lei.

Il film non ci dice da quanto tempo la ragazza è in quella condizione, né fa cenni al suo passato.
Lei stessa è confusa, non sa da quanto tempo sta lì dentro ma ha trovato la sua dimensione di pace; non riesce a riconoscere quello che realmente le accade, la verità che si racconta è che le sta bene così, preferisce non ricordare. Ho preferito lasciare una sospensione su questo, che lo spettatore si ponga domande capendo che non è quello lo scopo del film: si tratta più di un escape movie, di qualcuno intrappolato in un posto e che deve uscirne.

Vetro è ambientato interamente dentro una stanza, un luogo di reclusione che tuttavia è pieno di colori, luci, piante. Qual era l’idea all’origine della messa in scena?
Lo avevamo pensato fin dall’inizio come un luogo colorato, con piante, luci al neon viola, ma l’atmosfera era più buia. L’inversione c’è stata quando abbiamo scelto come protagonista Carolina, lei doveva essere l’elemento principale di questo quadro e il resto doveva uniformarsi a lei e al suo modo di portare la storia. Ho lavorato con i reparti dando tre direttive principali: colori, trasparenze e riflessioni. Mi piace pensare che ci sia un uso sovversivo dei colori e degli elementi che fanno parte della stanza, sempre in relazione al tema del nascondiglio, della parte celata che c’è nella protagonista e nella storia.

La protagonista è il motore della storia, la scelta dell’interprete era fondamentale. Cosa vi ha convinto di Carolina Sala?
Avevo da subito l’idea di utilizzare un tono fiabesco, soprattutto nella prima parte, perché questo mi avrebbe aiutato poi a capovolgere le cose. Dal primo self tape che ci aveva inviato, si capiva che Carolina poteva far parte di quell’ambiente. Poi, ai provini, nelle scene di dialogo con Marouane e con Tommaso aveva una sorta di sconnessione tra quello che diceva e quello che realmente sentiva; se chiudevi gli occhi era una cosa, se li aprivi era un’altra: questa sorta di frizione mi sembrava totalmente giusta per costruire il mistero.

In tempi di pandemia, confinamento e disagio giovanile, il suo film è di grande attualità. Cosa si sente di dire ai giovani che lo vedranno?
Di non aver paura di confrontarsi con se stessi, di non chiudersi. Se c’è un lato oscuro da qualche parte dentro di noi, bisogna indagarlo. La volontà è lo strumento base, è un muscolo che va allenato. Oggi non è facile, siamo bombardati da mille eventi che ci scioccano anche. Ma anche dietro queste ombre ci sono luci che vanno viste, non bisogna avere paura del sole.

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