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Italia

Alessandro Grande • Regista di Regina

“Più è grande la problematica per un giovane, più è forte il sollievo quando viene risolta”

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- Il regista ci parla del suo primo lungometraggio, presentato lo scorso novembre al 38° Torino Film Festival e ora vincitore del Premio opera prima all’Olbia Film Network

Alessandro Grande  • Regista di Regina

Unico film italiano in concorso alla passata edizione (online) del Torino Film Festival, Regina [+leggi anche:
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di Alessandro Grande ha ottenuto di recente, fra gli altri, il Premio opera prima all’Olbia Film Network. Ed è nella città sarda che abbiamo incontrato il regista per parlare del suo film, con protagonisti Ginevra Francesconi e Francesco Montanari nei panni di un’adolescente e suo padre divisi da un tragico incidente.

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Cineuropa: Qual è stato il percorso del film negli ultimi sette mesi, con un secondo lockdown di mezzo?
Alessandro Grande: Dal debutto a Torino il film ha avuto, dal punto di vista distributivo, una visibilità completa, e questo nonostante le incertezze del momento. È uscito non solo in streaming sulle principali piattaforme, ma anche in un circuito selezionato di sale e ora sta viaggiando molto nei festival. Quello che poteva essere un periodo confusionario si è rivelato efficace, perché ha fatto sì che il film fosse visto da tante persone. Siamo reduci da un Ciak d’oro, dal Premio Bonacchi ai Nastri d’argento per Ginevra, dal Premio opera prima a Spello, e ora il premio come miglior esordio qui a Olbia. Il film sta arrivando, non solo sullo schermo ma anche alla gente, e questo in un periodo del genere è un grande risultato.

Il tema di Regina, ossia la scomparsa della figura paterna e della sua funzione educativa, è molto attuale. Che cosa l’ha spinta a trattare questo argomento?
Oggi più che mai, la mia generazione difficilmente si assume i propri rischi e responsabilità, quindi la generazione successiva, senza punti di riferimento, si comporta come una pallina impazzita. Attraverso la lettura di libri e la visione di film, io e il mio co-sceneggiatore Mariano Di Nardo ci siamo resi conto che la tematica doveva essere raccontata. Un saggio in particolare, Il complesso di Telemaco di Massimo Recalcati, ci ha convinti. Riflette sulla figura genitoriale ma anche sul bisogno che hanno i giovani di riconoscere un padre autoritario che dia loro educazione e ordine, e dica loro ciò che è giusto o sbagliato.

Padre e figlia, da una condizione di simbiosi iniziale, finiscono per allontanarsi.
Recalcati parla anche del bisogno di perdersi per poi ritrovarsi, e nel film questo c’è: i due personaggi sono molto uniti fino a un certo punto, ma il tragico evento evidenzia crepe che prima non si notavano. Il padre ha paura di perdere la figlia e fa finta che non sia successo nulla. La ragazza accusa invece il colpo e il fatto di non aver vicino una persona capace di saperla guidare; fa di tutto, anche cose folli, perché la vive male e non sa come risolvere un problema che noi adulti sappiamo essere irrisolvibile. I due si allontanano e poi si ritrovano, e da questa separazione c’è una crescita.

Come ha lavorato con gli attori per rendere il rapporto fra Regina e suo padre credibile?
Mi sono assunto dei rischi importanti per un’opera prima. Innanzitutto, affidare un ruolo complesso e difficile, che aveva la riuscita del film sulle proprie spalle, a una ragazza di soli 16 anni. Poi volerlo realizzare con dei piani sequenza, senza staccare mai e pensando al montaggio già sul set, perché questa storia andava raccontata così per far entrare il pubblico in empatia con Regina. Poi le condizioni meteo: abbiamo girato in inverno, in Calabria, in un territorio montano dove alcuni giorni faceva talmente freddo che avevamo difficoltà a parlare. È stato un insieme di cose per cui bisognava arrivare il più possibile preparati sul set. Con Ginevra il percorso è cominciato un anno prima perché lei non cantava e non suonava, e nel film doveva interpretare una musicista. Ha preso lezioni di chitarra e di canto, e nel film esegue i brani live. Abbiamo fatto tante prove, abbiamo parlato molto dei personaggi, e Francesco si è dimostrato disponibilissimo a questo modo di lavorare. Il mio metodo è anche cercare di conoscere il più possibile gli attori, poiché ognuno reagisce in modo diverso a problematiche e situazioni, e se lo sai, riesci a gestirli meglio.

Perché ha voluto che Regina fosse una cantante?
Entrambi i personaggi hanno qualcosa di me: Regina il lato artistico (un tempo cantavo anche io), Luigi il fatto di non essere padre (io stesso non lo sono) ma lo diventa solo alla fine. La musica nel film viene abbandonata volutamente. Tutto avviene in pochi giorni. A 15 anni non si hanno le idee chiare: lei fa musica, le piace e la fa stare bene, ma quando le succede un evento così drammatico è l’ultima cosa che le importa, anzi, pensare di fare un concerto quando dentro di sé è devastata è un atto egoistico del padre. Abbandonare il sogno denota qualcosa che non va, in un percorso che progressivamente la porterà a un atto disperato.

Anche nel suo corto vincitore del David di Donatello nel 2018, la giovanissima protagonista doveva confrontarsi con un qualcosa più grande di lei.
In Bismillah era una bambina di 10 anni che doveva prendersi una grossa responsabilità: decidere se denunciare o meno la malattia del fratello, con il rischio di dover tornare nell’inferno da cui erano scappati. Regina è esile, fragile, ti dà il senso di un essere umano che andrebbe protetto e invece si ritrova a crescere improvvisamente a causa di un episodio che la segnerà per sempre. In entrambi i casi il punto di vista di una bambina o una ragazza assumono una valenza più significativa rispetto a un adulto: più è grande la problematica per un giovane, più è forte il sollievo quando viene risolta.

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