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Germania

Annekatrin Hendel • Regista di Banished to Paradise

“Ogni film ha bisogno del suo approccio e del suo concept visivo”

di 

- La regista tedesca ha colto l'occasione per superare le insicurezze legate al coronavirus realizzando un film che le affronta a testa alta

Annekatrin Hendel  • Regista di Banished to Paradise

Annekatrin Hendel è una documentarista esperta con un passato nella Repubblica Democratica Tedesca. Ha iniziato come produttrice e poi come regista, realizzando film ispirati alla storia della Germania del dopoguerra. Hendel fa parte della campagna promozionale Face to Face di quest'anno, gestita da German Films. Abbiamo parlato con lei del suo nuovo film, Banished to Paradise [+leggi anche:
intervista: Annekatrin Hendel
scheda film
]
, realizzato durante il primo lockdown per il coronavirus nel marzo 2020.

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Cineuropa: Come è nato il film?
Annekatrin Hendel: L'idea è nata in modo del tutto spontaneo, due giorni prima del primo lockdown, nel Marzo del 2020. Ero disperata perché avevo la sensazione che la pandemia sarebbe durata a lungo. Ero di cattivo umore, mentre mia famiglia era più positiva. Quando ho detto che avrei fatto un film, non mi credevano, ma mi hanno lasciato fare perché il mio umore migliorava quando usavo la telecamera e lo smartphone. Allora ho iniziato immediatamente e ho trovato subito un'emittente televisiva interessata.

Nel tuo nuovo film sei tu stessa uno dei protagonisti. Com'è stata questa esperienza?
Quando faccio film, ho spesso a che fare con storie problematiche. Voglio che le persone si mostrino e rivelino qualcosa di loro stesse, e se mi aspetto questo dai miei protagonisti, devo anche essere io pronta a farlo. Banished to Paradise non è però il primo film personale che ho realizzato. Uno dei miei film più intimi e allegri sulla morte è Five Stars [+leggi anche:
trailer
scheda film
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[2017], che racconta della scomparsa del mio migliore amico.

Il coronavirus ti ha messo sotto pressione?
Il mio compagno, cameraman, si sentiva già molto sotto pressione, ma i nostri figli erano abbastanza tranquilli. E io ho sentito molta pressione come capo di una società di produzione cinematografica, dove tutto si è immediatamente fermato. Alcuni contratti non sono più stati firmati e le riprese sono state sospese. Avevo davvero paura per il mio sostentamento. A seguito di questa pressione, ho pensato: "Faccio questo film adesso perché potrebbe essere anche l'ultimo". Questa era la mia paura, ed è per questo che ho voluto fare un film almeno su questa paura.

Come trovi di solito i tuoi soggetti?
In realtà sono lì da molto tempo e sono tutti molto personali. Non ho mai fatto un film che non fosse basato su un'esperienza personale o sulla conoscenza personale di un protagonista. Il motivo per cui faccio film deriva dal mio background. Vengo dalla Repubblica Democratica Tedesca e non ho mai visto film che avessero a che fare con la realtà o la mentalità della vita come l'ho vissuta in quel periodo. Per tutti i miei film, conosco molto bene il punto di partenza; faccio ricerche approfondite, di solito per diversi anni. Sono sempre molto preparata. In confronto, Banished to Paradise è molto diverso perché non ho fatto alcuna ricerca. Pertanto, il film è straordinario rispetto al mio corpus di opere.

Come sviluppi il concetto visivo di ogni film?
Ogni film è una reinvenzione completa. Ogni storia, credo, ha bisogno di un proprio approccio. Non c'è uno schema fisso con cui lavoro, perché mi annoierebbe. In Anderson [2014], su Sascha Anderson, per esempio, ho ricreato la famosa cucina del protagonista a Berlino Est come ambientazione in un grande studio. Si trattava di una rievocazione attraverso la scenografia. Si trattava di un'operazione molto specifica, che non sarebbe stata praticabile per un altro film. Ogni film ha bisogno di un proprio approccio e di un proprio concetto visivo.

Ha dei modelli cinematografici che ti hanno influenzata?
No, nella Repubblica Democratica Tedesca c'erano alcuni registi molto bravi che mi piacevano, ma ciò non ha nulla a che vedere con me. Non mi è stato permesso di studiare ed è per questo che sono un autodidatta. Naturalmente, mi piace guardare i film. Sono anche una grande fan di Fassbinder e ho fatto un film dedicato a lui. Ma non è il mio modello di cinema in sé. Tuttavia, mi ha colpito perché è il regista tedesco il cui lavoro ha raccontato la storia tedesca del dopoguerra quasi senza interruzioni e in modo molto complesso con 44 film e serie. Da questo punto di vista, forse, è un modello da seguire, perché non ha separato le cose, o la storia, dal loro contesto. Si è concesso un punto di vista socialmente accurato e soggettivo. È esattamente quello che voglio, solo che per me si tratta di storia tedesca recente.

Quali cambiamenti ti piacerebbe vedere per quanto riguarda la promozione e il finanziamento per il film in Germania?
Vorrei una maggiore flessibilità, soprattutto per i documentari. Ad esempio, non si può iniziare a girare prima di aver fatto domanda di finanziamento. Questo non ha senso per un documentario.

In collaborazione con

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(Tradotto dall'inglese da Alessandro Luchetti)

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