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György Kristóf • Regista

“È la storia di una lotta contro una vita insoddisfacente”

di 

- CANNES 2017: Cineuropa ha parlato con il regista slovacco György Kristóf della nascita e del processo di realizzazione della sua opera prima, Out, proiettata nell'Un Certain Regard

György Kristóf  • Regista

Con il suo primo lungometraggio, Out [+leggi anche:
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, il regista emergente slovacco György Kristóf è stato selezionato quest’anno per la sezione Un Certain Regard di Cannes. Il giovane cineasta ha già girato diversi film durante il suo percorso di studi e ha lavorato con Kevin Macdonald, Mark Herman e Ildikó Enyedi, prima di dedicarsi per cinque anni alla realizzazione di Out, una co-produzione che coinvolge Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria, Francia e Lettonia. Cineuropa ha avuto l’opportunità di parlare con lui dell’idea iniziale e del processo creativo che ha portato a Out, nonché dell’uso nella pellicola di elementi surreali.   

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Cineuropa: Lei ha lavorato come assistente alla regia per Ildikó Enyedi e Daniel Young, oltre che aver fatto parte della troupe di Kevin Macdonald, Mark Herman e Gábor Csup. In che modo queste esperienze l’hanno formata?
György Kristóf
: Questa mia avventura cinematografica è cominciata con Ildikó. Ho trascorso la metà di quell’anno a lavorare sul progetto, e lei mi ha portato ovunque – anche in luoghi in cui non avrebbe dovuto – in modo che potessi imparare. Mátyás Erdély,conosciuto per il Il figlio di Saul [+leggi anche:
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, era il direttore della fotografia, e osservando il loro metodo di lavoro, ho gettato le basi di cui avevo bisogno per capire come si realizza un film, anche se non sono certo che tutto ciò abbia in qualche modo influenzato il mio stile personale. Non credo nemmeno di avere già uno stile. Out ha il suo universo specifico, ma è solo il primo passo di una ricerca più vasta. In seguito, la mia esperienza nelle troupe di grandi produzioni americane e inglesi è stata diversa rispetto a quella con Ildikó. Sono diventato l’ingranaggio di una grande marchingegno. Ho lavorato in una squadra di assistenti, con persone che realizzavano i film di James Bond. È stato un privilegio scoprire dall’interno come funziona una squadra di notevoli dimensioni. Non è stato facile: in ogni caso, mi ha dato definitivamente la sicurezza in me stesso. Ero un regista che, dopo aver fatto dei film per la scuola, all’improvviso si trovava a far parte di una grande troupe.

Out è un progetto relativamente grande. Come è stato lavorarci come regista esordiente?
Sì. Quando lo stai concependo e scrivi le prime due o tre pagine di sinossi, non hai davvero idea di cosa ciò comporti. L’intero progetto è decollato prima ancora che finissi di scrivere il copione, sebbene il finanziamento sia arrivato gradualmente, ed è per questo che le riprese sono durate diversi anni. Non è stato facile, anche perché non mi sono potuto dedicare a lungo al montaggio. Abbiamo girato in quattro continenti a due riprese, e tutta la troupe, non soltanto il nucleo creativo, ha subito cambiamenti. Parlavamo in inglese, e spesso non era sufficiente, ma da quando al team si sono unite persone che parlavano tre lingue, siamo riusciti a capirci l’uno con l’altro. Avevamo a disposizione un numero relativamente limitato di giorni per girare, ecco perché ci siamo affidati ad un direttore della fotografia esperto ed efficiente, e sapevamo anche chi volevamo come protagonista, Sándor Terhes: con lui è stato facile. Entrambi hanno rappresentato il sostegno più importante per noi.

La storia di Out è ispirata a quella di suo padre, giusto?
Mio padre per una parte, ma ci sono anche altri membri della mia famiglia, ed io stesso. Dopo l’iniziale flop del film che ho realizzato per la mia laurea triennale, Non sono stato accettato al programma del Master dell’Accademia del cinema di Praga, quindi con mia moglie mi sono trasferito a Riga, visto che lei stava finendo la scuola di cinema lì. Poi il mio film di laurea ha ottenuto dei riconoscimenti in numerosi festival di cinema, e ovunque come premio, abbiamo ricevuto della pellicola da 35 mm. Alla fine ne avevamo qualche chilometro, così ho pensato che fosse un buon punto di partenza per un cortometraggio. Ma ero a corto d’ispirazione, quindi ho provato con un lungometraggio, ed è così che è nato Out. Per me, era cruciale che il protagonista andasse all’estero: tuttavia, ho esitato a lungo prima di decidere la sua età, chiedendomi se dovesse appartenere alla mia generazione o essere più vecchio. Ho scelto la seconda opzione per ragioni drammaturgiche e personali. I problemi della società post-socialista hanno influenzato le vite dei nostri genitori e hanno avuto un impatto radicale anche sulla nostra generazione. Siamo obbligati a parlarne, a parlare della lenta degradazione che sentiamo scivolare nelle nostre esistenze.

Ha dichiarato di non voler fare un film psicologico.
La situazione iniziale, con qualcuno che perde il lavoro, è in parte sociale, ma anche se il protagonista parte alla volta della Lettonia per motivi professionali, la sua motivazione non è esistenziale. Egli si sente inutile, e questo lo scuote: vede l’opportunità per un nuovo inizio, non un dramma. La storia descrive la lotta contro una vita insoddisfacente. La maniera in cui abbiamo plasmato il protagonista, il suo comportamento in determinate situazioni, le azioni dei personaggi secondari e ciò che accade a lui – sono tutti elementi che abbiamo coscientemente spinto da una dimensione reale a quella dell’assurdo e della stranezza. Il tutto è stato enfatizzato dalla scelta del cast, delle location e dal modo di girare. Analizzare la società era più importante che ritrarre qualcosa che si è già visto.

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(Tradotto dall'inglese)

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