email print share on Facebook share on Twitter share on LinkedIn share on reddit pin on Pinterest

László Nemes • Regista

"Non un film sulla sopravvivenza, ma sulla realtà, sulla morte"

di 

- CANNES 2015: In competizione a Cannes per la prima volta, il cineasta ungherese László Nemes parla del suo straordinario Il figlio di Saul Cannes 2015 - Grand Prix

László Nemes  • Regista

Con il suo primo lungometraggio, Il figlio di Saul [+leggi anche:
recensione
trailer
Q&A: László Nemes
intervista: László Rajk
scheda film
]
(leggi la recensione), il cineasta ungherese László Nemes ha fatto centro, arrivando direttamente in concorso al 68mo Festival di Cannes e creando il caso sulla Croisette. Incontro con il regista all’indomani della proiezione ufficiale del film.

(L'articolo continua qui sotto - Inf. pubblicitaria)

Da dove viene l’idea di trattare il soggetto dei Sonderkommando del campo di concentramento di Auschwitz?
László Nemes: La mia prima fonte d’ispirazione è stata la lettura del documento Des voix sous la cendre, testimonianze scritte da e sui Sonderkommando, e che erano state nascoste nel 1944. Era come essere lì, nelle loro vite, all’interno. Poi, con la mia co-sceneggiatrice Clara Royer, abbiamo fatto moltissime ricerche. Avevo anche dei motivi personali per fare questo film perché alcuni membri della mia famiglia sono stati sterminati ad Auschwitz. Un qualcosa, queste terribili cose che ci sono accadute, che ha permeato tutto il processo di ricerca...

Lo sterminio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale è stato spesso affrontato al cinema…
Ero frustrato dall’approccio alla rappresentazione di queste tenebre nel campo della fiction. Partendo dal presupposto dei sentimenti, si ottiene esattamente l’opposto di quello che dovrebbe essere. Questi film cercano troppo d’impressionare, il loro approccio è prevedibile, vanno in tutte le direzioni, mostrano questo e quello, e non dimentichiamo quel ragazzo così diabolico… Vogliono ad ogni costo creare questo mondo iper cupo. Volevo uscire da ciò e riportare tutto al presente. Ad esempio, Schindler’s List è un ottimo film, di grande talento, molto drammatico, quasi epico, ma sulla sopravvivenza. Io non volevo fare un film sulla sopravvivenza, bensì sulla realtà, sulla morte. Perché la sopravvivenza è una menzogna, era l’eccezione. E ho pensato che non bisognasse parlare di gruppi, di eventi, ma che si dovesse parlare dell’essere umano in un campo di sterminio: che cosa vi vedeva veramente? Che cosa vi sentiva? Da A a B, che cosa sapeva di A? E di B ? C’era una C? Abbiamo tutti questa visione dei campi dal punto di vista delle guardie, ma nessuno nei campi aveva questa visuale, c’erano tanti punti di vista quanto individui, visioni ristrette, ostruttive, frustranti.

Perché ha scelto uno stile così immersivo e quel ritmo?
Ho fatto tre cortometraggi con il direttore della fotografia Matyas Erdely e avevamo già cercato una maniera diversa di raccontare le storie, lavorando sull’autofocus, l’ottica, la cinematica, ecc. Partendo dall’idea di un uomo incaricato di bruciare la gente e che vuole seppellire il cadavere di quello che pensa essere suo figlio, abbiamo dapprima lavorato sulle tappe del suo percorso per affinare la pellicola.

Quali sono i limiti morali che si è fissato?
Quando si vuole mostrare troppo, si finisce con molto meno, secondo me. Ma in questo film, se si mostrava troppo poco era un problema, perché si sarebbe semplificato l’orrore e non si può semplificare l’orrore. Quindi la strategia è stata quella di estrapolare pochissimi elementi per lo spettatore, in modo da stimolare fortemente la sua immaginazione. Penso che sia la cosa più prossima a quello che era l’esperienza dei campi, a quello che si provava in quanto essere umano. Suggerire è più forte che mostrare. Abbiamo un uomo che lavora in un forno crematorio e lo seguiamo. Non guarda l’orrore perché vi è abituato. Neanche lo spettatore lo guarda, dunque, ma guarda ciò che attiene alla ricerca di quest’uomo: il ragazzo. E’ una storia interiore nel mezzo di queste tenebre. E ciò che sta sullo sfondo, rimane sullo sfondo. Ma sappiamo che si tratta di una fabbrica della morte e ne abbiamo qualche segnale frammentario. Non mostriamo niente, se non attraverso questa rappresentazione indiretta. Però la fabbrica è in attività, uccide gente e ci sono dei corpi. Ma se avessimo messo troppi elementi sanguinosi, sarebbe diventato uno spettacolo, un divertimento in un certo senso, nel senso sbagliato. E non è questo che volevo fare.

(L'articolo continua qui sotto - Inf. pubblicitaria)

(Tradotto dal francese)

Ti è piaciuto questo articolo? Iscriviti alla nostra newsletter per ricevere altri articoli direttamente nella tua casella di posta.

Leggi anche

Privacy Policy