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FILM / RECENSIONI Italia

Recensione: Codice Carla

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- Daniele Luchetti apre un dialogo virtuale con la grande ballerina Carla Fracci, scomparsa nel 2021, allargando lo sguardo sulle arti performative

Recensione: Codice Carla
Carla Fracci e suo padre Luigi Fracci in Codice Carla

Carolyn Carlson, che ha saputo marcare la differenza tra la danza contemporanea e quella classica, ne riconosce l’identità comune e dice: “Carla lavorava con le storie ma lei era autentica. Oltre a essere un mito era una splendida persona normale”. A raccogliere la testimonianza della grande coreografa è Daniele Luchetti, regista del film documentario Codice Carla, nelle sale italiane solo il 13, 14 e 15 novembre con Nexo Digital, dedicato a Carla Fracci. Scomparsa il 27 maggio del 2021, è stata una tra le più importanti figure del mondo della danza, e con la sua grazia e tenacia ha conquistato teatri, tendoni, chiese e piazze. Di lei si è raccontato praticamente tutto e non deve essere stato un compito facile per il regista de La nostra vita [+leggi anche:
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individuare la chiave da dare ad un documentario che si confrontasse con la “prima ballerina assoluta”. L’ha trovata scegliendo di raccontare le collisioni che il ragionare sulla sua figura hanno creato con la curiosità del regista, come ha spiegato lo stesso Luchetti, Il regista ha così destrutturato biografia e repertorio della “etoile” per costruire un ritratto sfaccettato, allargato anche alle figure degli artisti performativi.

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Ecco il perché della presenza nel doc di artisti che operano nel medesimo campo di Carla Fracci – Alessandra Ferri, Roberto Bolle, Eleonora Abbagnato – e altri agli antipodi della danza classica, come le performer Marina Abramovic e Chiara Bersani, l’attore Jeremy Irons, il jazzista Enrico Rava, che raccontano le loro personali esperienze. Utilizzando materiale d’archivio, vecchie interviste televisive con Carla Fracci e interviste realizzate ad hoc, Luchetti apre un dialogo virtuale con la grande danzatrice e organizza il racconto in capitoli. Ne “Il corpo”, Bolle ci spiega come Carla abbia lavorato con determinazione “per trasformare i suoi limiti in punti di forza” e Alessandra Ferri come il dolore delle torsioni sparisca nel momento in cui si balla.  Nel secondo segmento Carolyn Carlson parla del dáimōn junghiano e del talento come dono ma anche come “compito”. E parla di ego, “che si fa da parte nel gesto che improvviso. Sto servendo la forma. Scompariamo perché rappresentiamo tutta l’umanità”.  Carla Fracci rifuggiva il divismo, condivideva la sua arte con umiltà. Portava la danza nelle fabbriche, nelle carceri.  “Il pubblico ha bisogno di avere questa figura astratta che danza, ma io sono una donna con  i problemi di tutte le donne”. Però la caratterizzava il rigore. Accusato di “spremerla troppo” il marito regista teatrale Beppe Menegatti risponde in una vecchia intervista: “Carla è una delle 5-6 grandi star del balletto internazionale, ha un messaggio da trasmettere al pubblico, e questo messaggio si ottiene con la prestazione costante”.

Per Marina Abramovic la popolarità “è un effetto collaterale”. Non è l’obiettivo dell’arte. Ricorda che negli anni Settanta aveva un pubblico di 10 persone. Cosa attira il pubblico? Bersani: “Un desiderio di vedere qualcosa che non si vede in altri luoghi. La danza si concede degli astrattismi e al tempo stesso grande corporalità, entrambi talmente radicali che è difficile pensare di trovarli in un altro linguaggio”. Abramovic cita Martha Graham: dovunque un ballerino danzi è un terreno sacro, anche se per Marina “il pubblico e l’esecutore creano un’opera d’arte unica”. Tra le scelte più intriganti e spiazzanti del doc c’è anche quella della supervisione musicale di Thom Yorke e le musiche degli Atoms For Peace edite da Yorke e Sam Petts-Davies.

Codice Carla è prodotto da Anele e Luce Cinecittà con Rai Cinema.

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