Josh Appignanesi • Regista
Song of Songs
di Annika Pham
- Una nuova voce che pone dei limiti solo per il gusto di trasgredirli
Josh Appignanesi, che ha studiato antropologia all'università di Cambridge e
ha realizzato sei cortometraggi, si è già fatto un nome con il suo primo film Song of Songs [+leggi anche:
recensione
intervista: Gayle Griffiths
intervista: Josh Appignanesi
scheda film] con Natalie Press e l’esordiente Joel Chalfen. Il
ritratto del rapporto fratello/sorella ambientato nella comunità ebreo
ortodossa di Londra, ha avuto la sua anteprima ad Edimburgo lo scorso
agosto, dove ha ricevuto una menzione speciale per il Michael Powel Award ed
è ora in competizione per il Tiger Award al festival di Rotterdam di
quest’anno.
Cineuropa: Quando è iniziata la tua passione per il cinema? Ci sono
stati dei registi o film in particolare che ti hanno influenzato nella tua
decisione di diventare regista?
Josh Appignanesi: Nei bei vecchi tempi, quando la televisione inglese
dava film europei, c'è stata un'intera stagione Buñuel, in cui c'era un suo
film almeno una volta alla settimana. Avevo nove anni. Credo di averli visti
quasi tutti, ed ho avuto moltissimi incubi. Tutta colpa di mio padre. Penso
che sia iniziata così. Oppure fu per Tom e Jerry. Poi, una volta, da
adolescente, tornai a casa ubriaco, accesi la televisione mentre ero a letto
e mi ritrovai nel mezzo di uno stranissimo film che trovai incredibilmente
lento e stupido, sebbene non potessi smettere di guardarlo. Ero ipnotizzato.
Poi l'ho dimenticato e anni dopo ho realizzato che si trattava di The
Sacrifice di Tarkovsky.
Com'è nato Song of Songs? E' frutto di una tua improvvisazione?
Nasce da un'improvvisazione. Le idee erano sempre tecniche, formali, emotive
ed intellettuali allo stesso tempo. Sapevo di voler fare un film
indipendente e poco costoso. Questo punto di partenza determina i limiti
della tua linea d'azione entro la quale, poi, puoi muoverti in grande
libertà. Allo stesso tempo, sapevo che c'era una storia nell'esplorazione
della psicologia della sottomissione e del dominio e che c'erano idee
formali che corrispondevano a questa austerità di mezzi e di contenuti -
idee quali "che effetto farebbe guardare un personaggio senza poterne
osservare il volto, che cosa provoca nello spettatore questo divieto
d'accesso alla personalità di qualcuno, esattamente come capita spesso nella
vita reale? "
Partendo da questo assunto ho cominciato seriamente a scrivere questo
progetto con Jay Basu. Ho anche incontrato una filosofa, Devorah Baum che mi
ha molto influenzato, soprattutto ponendo l'accento sulla religione.
Sapevo di voler creare questa austera, intensa opera 'da camera' ma avevo
bisogno di un contesto storico o simbolico in cui inserirla. Desideravo che
il film si facesse delle domande sulla funzione rivelatrice della
trasgressione, chiedersi per esempio se la trasgressione fosse patologica, o
un mezzo necessario per liberare sé stessi da imposizioni esterne, di modo
da creare il proprio interiore sistema di valori.
Come mai hai scelto Natalie Press e Joel Chalfen per interpretare i ruoli
protagonisti?
Avevo visto Natalie Press nel cortometraggio premio Oscar Wasp e ho
pensato che sarebbe stata grande per quel ruolo, perché ha molta presenza
scenica oltre ad una vera e propria 'brama' di essere qualcos'altro. La
cosa strana, era che in quella fase, nessuno aveva ancora visto My Summer Of Love [+leggi anche:
recensione
trailer
intervista: Jean-Paul Rougier
intervista: Pawel Pawlikowski
intervista: Tanya Seghatchian
scheda film]. Era stato già
girato ma ancora non era uscito nelle sale. Per cui ci siamo incontrati
giusto in tempo. Un'altra cosa strana è che ho scoperto che aveva ricevuto
un'educazione ebraica piuttosto tradizionale. Si trattava di un fatto
imprevisto che si è rivelato essere di molto aiuto.
Invece, già conoscevo abbastanza bene Joel Chalfen. In un certo senso, la
parte era stata costruita su di lui, la sceneggiatura è abbastanza 'ovvia'
per il suo personaggio. Interpreta un ruolo dominante quasi all'eccesso, ma
Joel ha questa sua vulnerabilità, questo sottile, effeminato narcisismo che
gli ha consentito in un certo senso di recitare 'contro' la sceneggiatura.
In generale, che tipo di storie vuoi raccontare nei tuoi film?
Credo di essere un regista più europeo che inglese. Voglio realizzare film
che ci costringano a guardare in un modo nuovo qualcosa che non avevamo mai
visto prima, ma che ci sembra stranamente famigliare.
Cosa pensi del cinema inglese ed europeo di oggi?
L'Inghilterra può essere un posto difficile per chi, come me, si sente
spiritualmente legato più all'Europa che all'America. Ma è anche piena di
persone e luoghi interessanti. C'è anche sempre questa sensazione che
l'Europa sia una cultura morente, mentre le cose genuinamente interessanti
accadono sempre da qualche altra parte. Ci troviamo in un'industria globale,
in grado di raccontare storie globali e l'Europa può e deve espandersi in
modi interessanti.
Come numerosi cineasti, ogni tanto mi sorprendo a guardare al passato come
ad una specie di età dell'oro, ma questo è esattamente l'obiettivo del
guardarsi indietro. Guardo al passato per cercare ispirazione, per trovare
un paradiso che non puoi raggiungere. Credo che si stiano facendo molti film
interessanti, in Francia in particolare, non da ultimo, perché laggiù il
cinema è sostenuto dallo stato perché considerato un'importante espressione
della cultura nazionale.
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