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LECCE 2018

Marie Garel-Weiss • Regista

“Volevo raccontare il dopo, quando smetti con la droga e la vita diventa possibile”

di 

- La regista e sceneggiatrice francese Marie Garel-Weiss ci parla del suo primo lungometraggio, La Fête est finie, in concorso al 19° Festival del cinema europeo di Lecce

Marie Garel-Weiss • Regista

Co-sceneggiatrice per vari registi, tra cui Fabrice du Welz, Cédric Kahn e Hélène Angel, la francese Marie Garel-Weiss ha debuttato come regista di lungometraggi con un film molto personale, che ruota attorno alla tossicodipendenza, ma che parla soprattutto di amicizia e gioia di vivere, e con due splendide protagoniste: Zita Hanrot e Clémence Boisnard. La Fête est finie [+leggi anche:
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intervista: Marie Garel-Weiss
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è in concorso al 19° Festival del cinema europeo di Lecce.

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Cineuropa: Come è nato questo film?
Marie Garel-Weiss: Era un soggetto che avevo voglia di trattare da molto tempo. E’ la mia storia, di quando sono uscita dalla dipendenza grazie all’amicizia con una ragazza con cui ho vissuto anni molto intensi, e che poi è diventata come una seconda madre per i miei figli. Sapevo che un’amicizia di questo genere, in quel contesto, poteva essere una bella storia, come quelle che mi piace vedere al cinema. Avevo anche voglia di raccontare il dopo, non tanto il durante della dipendenza, quando smetti e la vita diventa possibile, ma le emozioni, i sentimenti, persino il sole sulla tua pelle, sono violenti. Allo stesso tempo, avevo paura perché era tutto molto vicino a me. Alla fine, sono stati gli altri a convincermi che dovevo assolutamente fare questo film.

Il film tratta il tema della dipendenza evitando ogni stereotipo. Anzi, nelle terapie di gruppo vediamo coinvolte persone assolutamente insospettabili. Può capitare a chiunque, sembra dirci. Era questa la sua intenzione?
E’ difficile allontanarsi dal cliché, eppure quando senti parlare di dipendenza, le storie sono tutte diverse. La gente pensa sempre che il tossicodipendente abbia una famiglia disfunzionale, che sia un bugiardo, che si tratti di un vizio e non di una malattia… E poi c’era la mia esperienza. Io avevo questa amica, adoravo la sua famiglia, che era più borghese della mia benché fossero immigrati, eppure lei li considerava dei pazzi. Di fatto, la differenza tra chi è dipendente e chi non lo è, è questo sentimento un po’ più forte di non essere al proprio posto. Quando prendi la sostanza è un sollievo e puoi vivere senza gli altri. Sì, può capitare a chiunque.

Nel centro di recupero del film, l’amicizia tra le due ragazze non è ben vista perché, come dice il terapista, bisogna farcela da soli. E’ proprio così?
E’ vero e non è vero. Il terapista dice “se restate insieme, avrete una ricaduta”: con il co-sceneggiatore, Salvatore Lista, ci siamo detti che quella era la frase che articolava tutta la storia. Ha ragione, ma essendo un film e che la vita è più forte dei dogmi e delle teorie, ha anche torto. E’ come nelle storie d’amore, quando ti dicono che non dovresti stare con lui perché non funzionerà, poi ci stai e viene fuori qualcosa di bello. Quando levi la droga vuoi mangiare, amare, fare amicizia, hai bisogno di riempirti di cose. Magari non sono vere amicizie, diventi dipendente da qualcos’altro. Ma poi ci sono cose che resistono, le due protagoniste creano un vero legame.

Anche perché il messaggio finale del film sembra essere proprio l’importanza della solidarietà umana…
Può sembrare un messaggio naif, ma nella società di oggi non restano che le persone, i legami, gli esseri umani, per andare avanti. Non si può fare affidamento sulle istituzioni, sui soldi, sul progresso, sul virtuale. In questo momento bisogna mettersi insieme. Anche se sono disarticolate, Céleste e Sihem sono molto forti.

Ci sono vari cambi di passo durante il film, momenti in cui la storia sembra andare da una parte e poi invece devia. Come mai questa struttura?
Il film parla di rinascita, così all’inizio cercavamo delle soluzioni su come uscire dalla dipendenza. Ma delle soluzioni vere e proprie non ci sono, quindi abbiamo scritto attorno a questo, a quello che accade fuori nel momento in cui si decide di guarire, ad esempio la famiglia che ti dice di cercarti un lavoro, di integrarti nella società… Non ci sono risposte certe, ho voluto mantenere questa natura altalenante nella storia, non si può prevedere quello che accadrà, neanche tra i personaggi. In questo, mi sono ispirata al film di Fatih Akin La sposa turca [+leggi anche:
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, su un uomo e una donna cui viene detto che non possono stare insieme, si avvicinano e si allontanano, in un movimento continuo.

Riguardo alle attrici protagoniste, come le ha scelte e come le ha dirette?
Zita l’ho conosciuta attraverso i media, aveva già preso parte a un film di successo in Francia che si chiama Fatima [+leggi anche:
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intervista: Philippe Faucon
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, con cui aveva vinto un César come giovane promessa. L’ho incontrata e mi è piaciuta tantissimo, lei ha un percorso classico, ha studiato recitazione, lavora in modo preciso, fa molte domande. Clémence è esattamente l’opposto, l’ho vista ai casting, l’abbiamo scelta perché è quasi buffa e non aveva esperienze precedenti di recitazione. Lei ha un modo di lavorare opposto, senza sovrastrutture, e si è approcciata al personaggio in modo spontaneo. Le attrici spesso si avvicinano alla figura della tossicodipendente pensando a Christiane F., con lo stereotipo del tossico trasandato. Così le ho portate alle riunioni nei centri di recupero e hanno potuto vedere che si tratta di persone normali che affrontano problemi vari, di lavoro, relazionali… Lì hanno capito di non voler interpretare delle drogate, bensì delle giovani donne, semplicemente.

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