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Nathalie Teirlinck • Regista

"Volevo rendere comprensibile ciò che sembra incomprensibile"

di 

- Cinergie ha incontrato Nathalie Teirlinck. Il suo primo lungometraggio, Le Passé devant nous, esce nelle sale belghe

Nathalie Teirlinck • Regista

Diplomata al KASK nel 2007, la giovane trentenne Nathalie Teirlinck si lancia nella realizzazione del suo primo lungometraggio Le Passé devant nous [+leggi anche:
trailer
intervista: Nathalie Teirlinck
scheda film
]
, in cui racconta la storia di Alice, una madre che si vede costretta a occuparsi del figlio che non conosceva.

Cinergie: Perché ha scelto questo titolo, Le Passé devant nous (lett.Il passato davanti a noi)?Èforseun modo per dire che non c’è più presente?
Nathalie Teirlinck: Il concetto di memoria è molto importante nel film, e ogni personaggio tenta di scappare dal proprio passato. Non sanno che il passato fa parte del futuro. Non credo alle grandi trasformazioni nella vita, quindi non penso siano possibili nemmeno al cinema. La memoria cambia alla fine del film, ma non si trasforma, perché è così che avviene nella vita.

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Avete girato il film in francese per far recitare l’attrice Evelyne Brochu nel ruolo da protagonista?
Proprio così. Sapevo dall’inizio che il film si sarebbe basato su Alice. Non scrivo mai basandomi sugli attori, ho delle energie nella testa e bisogna partire alla ricerca della persona giusta. Siccome è una donna abbastanza complessa e universale, sapevo che dovevo cercare qualcuno con una vasta gamma di emozioni da esprimere. Avevo visto The Nest di David Cronenberg e lei era da sola, nuda, di fronte alla cinepresa, e la sua energia, la sua complessità mi hanno sconvolto a tal punto da decidere di scriverle ed è così che ci siamo incontrate a Montreal.  L’energia tra di noi è stata calorosa fin dall’inizio. Potrebbe quasi essere mia sorella. Ci dicono che ci somigliamo, anche fisicamente.

I temi del film sono autobiografici ma il contesto di finzione non lo è. Quando scrivi un personaggio sei tu il quadro di riferimento, e ti metti quindi sempre al suo posto. Poi, aggiungi le sue prospettive, il suo punto di vista, la sua personalità, la sua storia.

Non volevo né giudicare né essere moralista. Volevo rendere comprensibile ciò che sembra incomprensibile. Delle cose evidenti della società, come l’amore incondizionato di una madre per il figlio, non sempre privo di complessità. Ho come l’impressione, avendone parlato con delle giovani madri, che siamo in un mondo di libertà ma certe cose sono ancora un tabù, o strane. Vogliamo tutti essere aperti, ma non si accetta l’abbandono di un figlio. E’ quindi un tema molto attuale. Allo stesso tempo, sono circondata da giovani madri o da amiche che si stanno preparando un po’ a questo… e quello che vedo io, è un mondo con delle enormi potenzialità, e un mondo in cui dobbiamo adattare tutti i ruoli della vita con una specie di perfezionismo supremo. Se fallisci è colpa tua perché le possibilità c’erano.

Alice ha dovuto separarsi da tutti, da ogni legame affettivo per potersi accettare?
Ha perso il controllo emotivo a tal punto da bloccarsi. Era più facile non muoversi che fare un passo. Ecco perché inizialmente il film si chiamava Tonic Immobility:deriva dagli animali, è un meccanismo di difesa, una sorta di paralisi istintiva per non essere attaccati. Per Alice è la stessa cosa: ha trovato un modo di vivere la vita senza responsabilità, con un sentimento di autonomia fittizia. Per lei è più facile, perché a quel punto è controllabile, e rispetto al suo lavoro da escort di lusso, ha la possibilità di testare i suoi sentimenti, cosa che non è in grado di fare nella vita vera.

Assieme alla sceneggiatura, l’immagine è in primo piano. Lei è anche scultrice. Come si compongono delle immagini così dorate, luminose?
La vita è piena di contrasti, di bellezza, ma non è mai solo la bellezza. Mi piace raccontare una storia attraverso il visivo e il sonoro perché per me stimola l’immaginazione dello spettatore. Con Franck, il mio capo operatore, lavoro molto con le foto. Sono circondata da foto quando scrivo, stimolano la mia immaginazione. Mi obbliga a immaginare ciò che è fuori dal campo visivo di ogni foto.

Come ha scritto la sceneggiatura?
L’ho scritta da sola, e poi con l’aiuto di Molly Stensgaard, la montatrice di Lars Von Trier con cui ho lavorato soprattutto alla fine perché era là anche durante il montaggio. È stato interessante perché se sei nel montaggio hai una specie di ritmo, puoi sentire il film in modo diverso. Gli sceneggiatori sono raramente capaci di anticipare virtualmente qualcosa che sarà palpabile alla fine.

Leggi l’intervista completa in francese qui.

In collaborazione con

 

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(Tradotto dal francese da Dalila Minelli)

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