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Rachid Bouchareb • Regista

"Il cinema è sempre una follia"

di 

- Incontro con un regista umanista e impegnato, che ha svelato con grande talento un periodo poco noto della storia francese

Il produttore e regista Rachid Bouchareb spiega a Cineuropa le tappe principali dell’avventura cinematografica di Indigènes [+leggi anche:
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, divenuto un fenomeno sociale che tocca i temi dei pregiudizi sull’immigrazione. Dai racconti di guerra nell’infanzia alla consacrazione a Cannes, la storia di un regista in cerca della verità.


Cineuropa: Qual è stato il suo punto di partenza nella scrittura della sceneggiatura di Indigènes?
Rachid Bouchareb : L’idea di farne un film risale a dieci anni fa. Ma lo avevo già scoperto, in maniera vaga, durante la mia infanzia. Per la sceneggiatura, sono partito dalla gente, ho condotto una ricerca per inquadrare bene l’argomento. Assieme al mio co-sceneggiatore Olivier Lorelle, abbiamo incontrato gli attori che avevano combattuto quella guerra a Dakar, nel nord dell’Africa, in Francia. Abbiamo fatto ricerche storiche, nonostante fosse un tema poco affrontato. Al Service des Armées, ho letto rapporti in cui si diceva che era necessario fare attenzione ai soldati delle colonie, perché sarebbe stato difficile ricondurli alle loro situazioni iniziali, al ritorno in patria. Ho scoperto anche la censura della posta. Sono andato avanti così. Alla fine della ricerca, sapevo che il film non avrebbe potuto essere centrato su un solo personaggio, c’era così tanta gente che mi aveva raccontato la propria storia così personale e unica! E poi, la Storia ha i suoi obblighi: si parte dall’Algeria, dal Marocco e dal Senegal e si arriva a Berlino, anche se Indigènes si ferma in Alsazia. E alla fine del film si torna al 2006, perché questi uomini esistono e vivono ancora oggi in attesa.

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Ha mai avuto un’attrazione per il film di guerra?
Ne ho visti e rivisti molti: Il giorno più lungo, The Big Red One, Il ponte sul fiume Kwaï, Salvate il soldato Ryan, Niente di nuovo sul fronte occidentale , alcuni film russi, tedeschi... Li ho visti molto tempo fa insieme ai western con cui sono cresciuto. Rivederli mi ha confermato che quell’esercito e quegli uomini non erano mai stati rappresentati al cinema nel loro ruolo reale durante la Liberazione dell’Europa e della Francia. In seguito, ho realizzato che anche se avevo fatto fino a quel momento film molto diversi, non era un problema, Nel momento in cui si scrive la storia, è lei a guidarci. Il solo problema è tecnico, ma si può gestire. Ho passato un anno a preparare il film, e ho disegnato uno story-board di 900 riprese, molte delle quali scene di guerra. Ma se sono riuscite, non è grazie agli spari o all’azione. Quello che conta è ciò che è dentro quelle scene, il modo in cui i personaggi le vivono.

Perché ha iniziato con immagini d’archivio in bianco e nero e poi delle tinte decolorate?
Aprire con queste immagini d’archivio in bianco e nero dell’impero coloniale francese mette il pubblico in condizioni simili a quelle degli eventi documentati all’epoca. Abbiamo usato informazioni storiche come base. Ho usato poi date e luoghi richiamandoli con immagini in bianco e nero, che ricordano quelle utilizzate all’inizio. E questo da veridicità al film. Per quanto riguarda gli aspetti visivi, volevo un color cachi, quello delle divise militari, né brillante né estetizzante, ma difficile da virare nel tono giusto.

Gli attori hanno aderito subito al progetto?
Quando sono andato a trovarli, non c’era ancora una sceneggiatura. Volevo coinvolgerli nel progetto per dare energia a me e a loro. Per dire loro: ecco, ci siete dentro, ragazzi, volete che venga spazzata via la polvere dalla Storia di Francia e che venga scritto un capitolo mai aperto, quella dei vostri nonni, dei vostri antenati, la nostra storia. Tutti hanno detto di sì e sono tornato con una sceneggiatura due anni dopo. Questo film, non potevo lasciarlo solo a me stesso, perché appartiene a chiunque lo voglia.

Quali sono stati le difficoltà incontrare nel finanziamento del film?
Non posso parlare di complotto, nel senso che il film non avrebbe dovuto esistere a causa del soggetto che affronta. Ma, a parte Pierre Héros di France Télévisions e TF1 Vidéo che hanno accettato subito dopo la lettura della sceneggiatura, ci sono state molte esitazioni. Alcuni lo avvicinavano alla guerra in Iraq, e nel mio film, dei soldati musulmani liberano Francia e Italia al grido "Allah è grande". Ho anche sentito dire che il film sarebbe costato un fortuna, e che non interessava al pubblico francese. Ma anche se è dura, il cinema francese ha un sistema eccezionale e si trova sempre gente disposta ad aiutarti. Il cinema è sempre folle. Anche Sergio Leone ha aspettato lunghi anni prima di girare C’era una volta in America. Così Indigènes ha avuto almeno 25 partner e bisogna ringraziare Jamel che ha coinvolto il Marocco, che ci ha dato tutto: l’esercito, il cannoni, le munizioni, le navi, gli aerei, i cargo...

Cos’ha imparato da questa avventura cinematografica e umana?
Indigènes permette a chiunque di noi di riflettere aldilà del punto d’inizio che è il dibattito sull’immigrazione: quello che i nostri genitori hanno fatto per la Francia non è legato solo a fattori economici. La storia inizia con tutti questi uomini che hanno lavorato al servizio dell’esercito francese sin dal 1870. Questa è anche la ragione della scena finale, che si chiude con le stele musulmane nei cimiteri militari delle due guerre mondiali, mai mostrate prima al cinema. È questa battaglia che viviamo oggi e alla quale tento di partecipare serenamente: quella Storia deve fare da punto di riferimento per il mondo? Con Indigènes, si racconta di come 300.000 soldati delle colonie si siano impegnati a liberare la Francia: non era mai stato detto.

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