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Robin Campillo • Regista

"Una comunità che si è creata con l’idea di oltrepassare i propri limiti"

di 

- CANNES 2017: Robin Campillo racconta la genesi di 120 battiti al minuto, uno dei film che ha più convinto tra quelli in concorso al 70e Festival di Cannes

Robin Campillo • Regista
(© F. Silvestre de Sacy / Festival de Cannes)

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(mostrati nella sezione Orizzonti a Venezia nel 2004 e nel 2013, con una vittoria per il secondo), il regista francese Robin Campillo ha presentato in concorso al 70° Festival di Cannes 120 battiti al minuto [+leggi anche:
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, un film magistrale, militante, commovente e brillantemente diretto, che conduce lo spettatore in mezzo a un gruppo di attivisti parigini di Act Up.

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Cineuropa: Perchè ha deciso di realizzare un film su Act Up e su quel periodo in particolare?
Robin Campillo: Sono entrato a Act Up nel 1992. Ho vissuto l’AIDS e gli anni ’80 come qualcosa di estremamente violento. Il messaggio non passava, c’era una specie di cappa di piombo. Sono entrato a far parte di questo gruppo come molti altri in quell’epoca, colpiti o meno dal virus, perché eravamo arrabbiati e volevamo smettere di essere considerati come le povere vittime della malattia, e diventare invece i cattivi omosessuali che avrebbero fatto esplodere la cappa di piombo. Volevo raccontare il momento in cui siamo usciti da questo silenzio, il momento liberatorio in cui le persone si sono riunite in un movimento che è stato anche gioioso, malgrado la situazione fosse dura, perché la gente moriva. Era del tutto naturale per me rendere omaggio a quest’epoca, ripensare a tutte quelle piccole azioni e farne degli eventi storici importanti, una specie di epopea composta da fatti minuscoli. 

Che posto occupano i suoi ricordi nella sceneggiatura?
Un posto estremamente importante. Ho realizzato il film interamente a partire dai miei ricordi, chiaramente riordinandoli con l’idea di farne una narrazione. Mi interessava il rapporto tra il collettivo e il modo in cui queste persone si sono messe insieme per fuggire da un percorso di solitudine e per formare una forza politica. Ma la malattia fa allontanare un personaggio principale dal gruppo, e lì sta la finzione: la maledizione di questa malattia. Volevo che lo spettatore condividesse la stessa percezione che abbiamo avuto noi entrando nel gruppo: c’erano delle cose che non capivamo, altre che riuscivamo a comprendere, ma c’era della vita, una moltitudine di parole ed eventi, anche se, a quel tempo, solo tra le 60 e le 80 persone partecipavano a queste riunioni settimanali. 

Il ritmo del film è molto intenso. Lei è regista, sceneggiatore e montatore. In che modo ha lavorato?
Ho lavorato sul tema della vita e dell’urgenza. Volevo che il film fosse come una serie di metamorfosi, che lo spettatore non avesse il tempo di vedere come si passa da una scena all’altra, volevo che in una scena fossero contenuti già i semi di quella successiva e che, al contempo, la scena appena passata rimanesse ancora presente, che ci fossero insomma dei residui un po’ dappertutto. Il tutto è stato ripreso in modo abbastanza brutale, tuttavia ho pensato continuamente a questi legami, a queste impressioni. Ci ho riflettuto fin dalla sceneggiatura, ma è un risultato collegato al mio stile di montaggio. 

É un film sulla militanza, che si interroga sulla maniera di agire.
Potevo fare del mio meglio attraverso un’opera di finzione e raccontando come è stata questa forma di militanza, senza prendere lo spettatore per mano per spiegargli delle cose o trasmettergli un messaggio. Tuttavia, ho l’impressione che se Act-Upha avuto un tale impatto, è perché riuniva gente che non aveva molta scelta. Erano i corpi a parlare, le persone colpite nel proprio corpo, che non avevano a disposizione un tempo infinito e già dovevano affrontare debolezze, trattamenti, ecc. Tutto ciò fa emergere un’urgenza, una forza, una potenza, un’energia. È quindi una lotta politica molto corporea. È la differenza tra il fatto di difendere una causa e l’essere nella lotta. In quel caso, era la lotta di una comunità che si è creata con l’idea di oltrepassare i propri limiti. Eravamo un piccolo esercito con la sensazione di fare qualcosa di nobile. 

Documentario, elementi romanzeschi, amore e tragedia: il film mescola molti generi diversi. 
Sono partito con l’intenzione di fare un film che cambiasse forma, che fosse inclassificabile in termine di genere e anche nello stile. Adoro l’idea che si scivoli come in quelle musiche il cui i cambiamenti di tonalità destabilizzano. Volevo avere questo effetto, perché credo che nella realtà noi stessi oscilliamo velocemente in un altro universo. Quando si è malati, il cibo assume un altro sapore, non sempre si è lucidi e anche quegli elementi che vediamo tutti i giorni, non vengono più percepiti nello stesso modo. Credo in questa estrema varietà e cerco di fare sì che lo spettatore non abbia più punti di riferimento.

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(Tradotto dal francese)

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